Dal vangelo secondo Marco (Mc 12, 38-44)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».
Il brano evangelico non annuncia giorni di catastrofe o presagi di sventura. E’ un brano che annuncia l’incontro con il Figlio dell’Uomo, colui che ha salvato e continuerà a salvare l’umanità anche nei momenti difficili. La storia dell’umanità è in funzione dell’amore di Gesù e non una sorta di resa dei conti per il da farsi o per ciò che non è stato fatto.
Marco alla comunità di Roma, perseguitata dal potere dittatoriale dei romani e beffeggiata dal popolo, invita i cristiani a non avere timore di professare la fede nel Cristo morto e risorto. Quando, infatti, anche i segni della natura sembrano far pensare che tutto è ormai oscuro e non c’è altra via d’uscita per vivere in un mondo di pace e giustizia, il Figlio dell’Uomo si presenta all’umanità con gesti di amore e di attenzione verso tutti, senza escludere nessuno.
E’ proprio quest’invito evangelico che oggi la comunità cristiana non può lasciare cadere nel vuoto. Non si limita a guardare chi muore di fame, di sete, di malattie, d’incuria, di veleni lasciati nell’aria o nelle falde, ma sa essere profetica e vera. E’ la comunità che non resta chiusa nei propri ambienti a piangere i deficit dell’evangelizzazione o che si limita a recriminare per le celebrazioni liturgiche poco accorsate, ma ripropone la Parola di salvezza e sa essere fonte di speranza per chi ha ormai perso il senso di vivere. L’accoglienza operosa della Parola trasforma l’uomo nel profondo, lo libera dalla sua solitudine, soprattutto dalle sue paure e dai suoi egoismi e lo rende discepolo del Signore pronto all’annuncio nella storia dell’umanità. La Parola di Dio sa dare risposte nella storia con i gesti di carità e non con funamboliche storie cantate nelle piazze, poiché la Parola prepara e anticipa nel tempo penultimo la città celeste, quel tempo ultimo in cui le parole scompariranno, e tutto sarà vissuto nell’amore.
Cristo non è il castigatore dei peccatori o il sentenzionatore di condanne, ma non è neanche colui che desidera comunità alle soglie dell’illusorio.
Le vere scelte nascono dal cuore di chi sta accanto all’umanità afflitta e con il Vangelo nella sua mano non illude nessuno, ma sa essere servo di tutti. “L’amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definito, ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, è sempre meno di ciò che aneliamo. Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande” (Benedetto XVI, Spes Salvi, 35).
Il Direttore
Antonio Ruccia