“Gli incidenti possono accadere”, ha affermato il premier turco Erdogan, commentando la tragedia avvenuta nella miniera di Soma, nel suo paese, dove, stando a fonti giornalistiche, ci sarebbero stati 282 morti e più di 100 dispersi. Gli incidenti possono accadere, certo, ma un capo di Stato dovrebbe aggiungere altro; il compito della politica è adoperarsi per ridurre sempre più i margini fra la fatalità naturale e la somma delle negligenze nella prevenzione degli incidenti sul lavoro. Un incidente sul lavoro non è un terremoto. Da che mondo è mondo, i terremoti sono eventi naturali allo stato puro; ma anche in quel caso possono esserci negligenze nel rispetto delle norme antisismiche. Figuriamoci la disgrazia in una miniera: la miniera non è un luogo naturale, ma uno spazio artificiale creato dalla tecnica, sfruttato dall’economia, controllato dalla politica. Quando la triangolazione non funziona, è sempre l’ultimo anello della catena (in questo caso i minatori) a pagare per le irresponsabilità di altri. Nel 1956, nella miniera di Marcinelle, in Belgio, ci furono quasi 300 vittime, in gran parte emigranti italiani. Dopo quasi 60 anni, la tecnica pare che abbia fatto qualche progresso, ma l’incoscienza umana e il cinismo no.
Solitamente, quando si parla di etica della responsabilità siamo portati a pensare a quell’atteggiamento morale che assume uno “sguardo lungo”, interrogandosi sulla ricaduta delle nostre azioni, personali e collettive, oltre il perimetro miope dei rapporti più immediati, segnati dall’empatia o dalla convenienza. Ma la vera responsabilità c’impegna non solo a guardare in avanti: possiede anche uno sguardo retrospettivo, diventa responsabilità della memoria.
Proprio in questi giorni, la stampa ci ha riproposto un video sulla strage di migranti a Lampedusa. Immagini strazianti, che il silenzio tombale e l’inconsapevole scodinzolare di qualche pesciolino non attenuano per niente. Per noi, figli della civiltà del rumore (che il cinema con i suoi effetti speciali sfrutta astutamente), la morte in silenzio potrebbe sembrarci meno traumatica. Ma certamente non è così, forse è anche peggio quando si toglie a un essere umano anche la possibilità di urlare il proprio terrore. Si può morire, con i polmoni riempiti più o meno lentamente dalla polvere di una miniera o dall’acqua del mare; morire in silenzio, forse senza nemmeno riuscire a trasformare il panico in un grido di dolore. Andarsene in punta di piedi, senza poter attirare l’attenzione di nessuno, né in vita né in morte.
Allora non resta che un unico gesto, straziante e profetico: abbracciarsi. Quei corpi che ondeggiano in fondo al mare di Lampedusa gridano a tutti noi – e in particolare a quanti, come i politici (?), brandiscono cinicamente l’arma della paura – che abbracciarsi è il modo umanamente più alto e più degno di dire sì alla vita.
Per questo la memoria non si accontenta di fermarsi alle cause prossime degli incidenti, cerca di riconoscere le cause remote e ricordarle, possibilmente per sempre. La causa prossima di un incidente minerario può essere un’esplosione, la causa prossima di un naufragio può essere un’onda anomala, un giunto o un asse che si spezza. Ma la persona umana è un essere verticale perché è capace di guardare lontano: guardando lontano, si scopre un mondo verminoso di malaffare che strozza i poveri e gli esclusi della terra. Se muoiono in silenzio, è anche meglio.
Per questo non possiamo rinunciare a guardare lontano. Oltre l’abisso. Oltre l’abisso del mare, c’è l’abisso del male. Quei corpi abbracciati ci dicono che l’essere umano è capace di andare oltre quest’ultimo abisso. Non dimentichiamo. Non facciamoli morire una seconda volta.