Cura degli Sguardi, Cura delle Relazioni: tra gli ostacoli, le possibilità a cura di Marco Ius – Università di Padova

Venerdì 19 giugno ore 19.00 – 20.30 Cura degli Sguardi, Cura delle Relazioni: tra gli ostacoli, le possibilità a cura di Marco Ius – Università di Padova

Cura degli Sguardi, Cura delle Relazioni: tra gli ostacoli, le possibilità a cura di Marco Ius – Università di Padova

Introduzione di Don Vito Piccinonna: Innanzitutto voglio ringraziare ciascuno di voi per aver accolto l’invito a vivere questo percorso formativo. Un carissimo e grato saluto all’ospite di questa sera, Marco Ius, Ricercatore presso l’Università di Padova che ci aiuta in questo primo dei nostri tre incontri che ci sono stati proposti. Grazie Marco e benvenuto in mezzo a noi. Perché questi incontri? Perché siamo certi che la fatica di questi mesi sia stata tanta per tutti, anzitutto a livello personale, e per tantissimi anche nell’impegno caritativo: penso all’impegno principale delle nostre comunità parrocchiali, con i loro presbiteri, diaconi, laici, religiosi; penso alle comunità di accoglienza, al centro di accoglienza Don Vito Diana, all’esperienza di casa O.S.A. per padri separati; a casa Ein Karem, alla casa per donne vittime di tratta dell’associazione Micaela; all’impegno delle mense, dei suoi operatori; all’esperienza del Telefono Amico, all’impegno di tanti cari amici e benefattori. Penso anche alla fatica che abbiamo vissuto nell’esperienza di collaborazione tra le comunità parrocchiali, magari della stessa città, del vicariato, del paese; l’impegno di raccordo con varie associazioni, anche laiche, al rapporto con le istituzioni, con i comuni. Certo, tutto è migliorabile, certamente; ma forse possiamo dire sin d’ora che proprio quando ci riconosciamo più fragili, quando, permettetemi, diminuiamo po’ di onnipotenza che ogni tanto ci attraversa, quando riconosciamo un’esperienza di fragilità comune, proprio allora questa diventa un fattore di maggior raccordo e incontro.

Più spesso abbiamo detto che questa crisi non è solo sanitaria, ma è anche psicologica, sociale, economica e anche democratica. Perché mi piace sottolineare anche questo aspetto di crisi «democratica»? Perché in questo periodo di emergenza, soprattutto nel periodo di lock down e non solo, alcune libertà che sono state limitate per tutti hanno visto alcuni segmenti, alcune esperienze umane, particolarmente travolti: penso all’impegno, ad esempio, dei centri di accoglienza, o ai centri diurni, alle tante esperienze in cui quella libertà che è stata limitata un po’ per tutti, per alcuni è stata ancora più limitata.

Voglio esprimere anche un grande ringraziamento agli amici dell’Osservatorio Diocesano delle Risorse e della Povertà della nostra Caritas, perché somministrando un questionario a tutte le 126 parrocchie della diocesi è emerso come a fronte dei 15000 fratelli e sorelle che tentiamo di accompagnare dei nostri percorsi di carità diocesana, 6700 nuove persone per la prima volta hanno bussato alle porte dei nostri servizi, alle porte delle nostre Caritas. Numeri impressionanti, che per noi però restano e devono restare anzitutto volti, storie, da accogliere ed accompagnare nel migliore dei modi, che è possibile solo insieme. Molto sicuramente ci aspetta un importante lavoro nei prossimi mesi, forse nei prossimi anni: e noi allora vogliamo attrezzarci facendo crescere consapevolezza in noi e nelle nostre comunità. Non dimentichiamo il compito, anzitutto pedagogico, educativo che la Caritas riveste all’interno delle nostre comunità, non solo diocesana, ma anche parrocchiale.

Siamo in molti ad aver accolto questa opportunità formativa: ringrazio e saluto tutti. In molti ci avete chiesto di essere supportati nella formazione: eccoci, lo facciamo per noi, per sostenere il nostro impegno caritativo ma lo facciamo anche e tanti nostri fratelli e sorelle che incontriamo e che incontreremo. Ora più che mai hanno bisogno di poter incontrare anzitutto una Chiesa dal volto materno, come Papa Francesco ha chiesto alla Chiesa italiana nello scorso Convegno nazionale. Incontriamo adulti e piccoli, giovani e anziani, italiani e immigrati, famiglie unite e frantumate; volti a cui ci sentiamo, dalla chiesa e come chiesa, mandati come fratelli verso altri fratelli e sorelle. Non dimentichiamolo mai questo approccio: il nostro non è quello di alcuni onnipotenti che hanno qualche risorsa in più. il nostro approccio è anzitutto quello di fratelli che vanno verso altri fratelli, o che comunque da loro si lasciano incontrare, né più né meno.

Concludo affidandovi queste parole, vecchie di trent’anni, ma fresche e nuove, perché sono le parole di un profeta della nostra terra, Don Tonino Bello, che è un po’ il mio augurio e di tutta la Caritas diocesana per ciascuno di noi:

«La scelta degli ultimi non è una scelta discriminatoria. È solo una specie di marcatura a zona, la zona delle retrovie, nel cui ambito chiunque dovesse capitarvi dovrà sentirsi amorosamente marcato a uomo da una presenza: quella della chiesa».

Ecco in queste retrovie non si sta caso o per sbaglio; forse abbiamo iniziato a starci per caso o per sbaglio, ma per restarvi, in queste retrovie di cui parla don Tonino Bello, dobbiamo maturare in umanità, se volete anche in spiritualità, in uno sguardo nuovo.

Passo la parola a Chiara Scardicchio, membro del gruppo di formazione della Caritas diocesana, a cui rivolgo un grande ringraziamento.

Chiara Scardicchio: Grazie. Per me è un onore e una gioia che la nostra diocesi possa accogliere il professor Marco Ius, che è un collega e un amico. Marco insegna all’Università di Padova e alla Facoltà teologica del Triveneto; ma che lui sia un docente universitario non è sufficiente per dirci del suo lavoro e della sua cura nell’accompagnamento delle vite difficili. Il suo lavoro è cominciato molti anni fa, ben quindici anni fa, con una ricerca che si è occupata di accompagnare le biografie di venti bambini nascosti alla Shoah. Da subito la sua ricerca ha riguardato l’attenzione e lo sguardo verso la vulnerabilità, in modo particolare, per sua passione identitaria, dei bambini e delle bambine, ma naturalmente volendosi occupare dell’infanzia, la vulnerabilità anche delle famiglie, degli adulti; non esiste un bambino o una bambina senza il mondo intorno.

L’interesse di Marco nell’accompagnamento e soprattutto nella trasformazione delle vulnerabilità persino in risorse è poi approdato al suo impegno più che decennale nell’ambito del progetto P.I.P.P.I.. È un progetto straordinario finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali che in tutta Italia si prende cura delle famiglie vulnerabili, le famiglie segnalate dai servizi sociali, affinché non siano ghettizzate, stigmatizzate, ma perché l’accompagnamento diventi addirittura motivo di crescita per tutto il territorio: per altre famiglie se ne prendono cura, per la scuola, per gli operatori sociali dei servizi pubblici e privati. P.I.P.P.I. è anche una straordinaria esperienza di rete, di collaborazione tra uomini e donne che hanno cuore il vostro stesso cuore, ovvero la carità, intesa non soltanto come una ricognizione inerente ai bisogni materiali, ma anche contemporaneamente la ricognizione che riguarda la ricerca della bellezza, del senso del nostro essere uomini e donne nella storia. E quindi c’è il professor Ius stasera perché il suo talento particolare è esattamente questo. E soprattutto ha il grande dono di tenere insieme la riflessione teorica con la sua applicazione. Tra i tanti talenti di Marco c’è anche la sua straordinaria creatività, che si incarna poi nella messa a punto di strumenti reali che nella quotidianità possiamo fare nostri per l’accompagnamento, in cui la cura diventa anche gioiosa. Scoprirete direttamente da lui che cosa intendo proposito del suo talento creativo e gioioso. Grazie Marco.

Marco Ius: Grazie mille Chiara di questa super presentazione che da una parte mi lusinga e dall’altra e così vi permette di guardare un po’ anche la mia traiettoria biografica e nelle tue parole ho così ricontattato tanti volti di persone incontrate in questi anni. Dico questo nel darvi anche ufficialmente il mio saluto e nel ringraziare tutti quanti voi ciascuno con il suo ruolo da chi organizzato, da chi ha promosso, da chi sta partecipando per questo invito speciale. Mentre prima ascoltavo l’introduzione di don Vito ho potuto scorrere, come se fosse una lista, di diversi organismi, organizzazioni, associazioni, contesti in cui la Caritas della vostra diocesi è impegnata. Ascoltando nomi di queste comunità ho immaginato quante persone poi si incontrano in quei contesti, a quanti volti si possono incontrare; sinceramente mi ha molto colpito, mi ha proprio commosso sentire di 6700 volti nuovi incontrati in questo periodo, che sicuramente ci ha messo tutti alla prova, però sappiamo che alcuni sono stati messi più alla prova degli altri, perché magari si trovano in una situazione di fragilità, di vulnerabilità, che rende poi questa prova ancora più pesante e difficile.

Quello che abbiamo concordato insieme e che poi ho preparato per voi questa sera è una piccola «passeggiata», mi piace usare questo termine, che ci permette di andare un po’ ad esplorare la cura degli sguardi, la cura delle relazioni, tra ostacoli e possibilità. Se ci pensiamo già in questo momento noi qui ci stiamo incontrando, stiamo provando ad incontrarci con uno strumento tecnologico in una situazione un po’ strana che magari non ci saremmo aspettati; abbiamo già visto come in questi 40 minuti in cui ci siamo connessi, abbiamo provato a vedere se il microfono funzionava, se funzionava la telecamera ecc., abbiamo già fatto insieme un esercizio di sguardo e di cura della relazione, sapendo che queste tecnologie potrebbero essere degli ostacoli, però dall’altra parte vediamo come questo strumento ci dà anche la possibilità di incontrarci in questo momento. Diversamente, soprattutto per me che sono il più lontano, che vi sto parlando della provincia di Udine, non sarei potuto sicuramente oggi essere con voi a Bari se si foste incontrarti in presenza. Eppure, vediamo come possiamo creare una presenza anche attraverso questi strumenti, facendoli diventare da ostacoli anche delle possibilità.

E soprattutto pensando un po’ a questo tema degli sguardi, della cura delle relazioni che tanto sono importanti, che tanto ci dicono anche del nostro lavoro di incontro con le persone che si trovano in una situazione di fragilità, tutti quanti noi qui abbiamo cercato i volti fra le persone connesse, abbiamo cercato i volti di quelli che conosciamo, ci siamo fatti incuriosire dai volti di quelli che non abbiamo mai visto, alcuni hanno vissuto un po’ la frustrazione di vedere che la propria telecamera non funziona, che l’altro non riesce a vedermi in questo momento; o anche alcuni magari hanno vissuto con la frustrazione di ascoltare qualcuno senza vederlo, o di vederlo bloccato in quel momento. Allora mi piace partire da queste sollecitazioni anche di quello che noi quanti qui stiamo vivendo come un po’ uno specchio, che ci permette anche di riflettere su quelle che invece poi sono le nostre dinamiche di sguardo, di relazione, nel momento in cui andiamo ad incontrare poi le persone.

Per procedere stasera ho pensato di provare un po’ ad osare, con voi e con il vostro gruppo. Sappiamo che siamo un bel gruppo numeroso ci sono 75 persone collegate qui, però poi sappiamo che alcuni di voi sono anche collegati in un gruppo. So che in questo gruppo poi ci sono diverse età, diverse abilità anche nell’utilizzo del degli strumenti tecnologici. Vorrei provare a chiedere a chi se la sente, a chi vuole, non è una cosa obbligatoria, è un esperimento, chiedo a di andare in una semplicissima pagina su internet e scrivere questo indirizzo, per chi è esperto del codice QR può anche scansionarlo qui. Vi lascio qualche secondo per provare a collegarvi a questo strumento. Eccoci qua, vedo che siete già 25 collegati, chiedo così di fare una prova e rispondere a questa domanda: “Da quanto tempo siete degli operatori Caritas?”. Vediamo che stanno arrivando diverse le diverse risposte: è un gruppo in cui la gran parte del delle persone è impegnata da diversi anni, avete una bella esperienza e sicuramente se avessimo la possibilità anche di ascoltarci reciprocamente ci sarebbero tantissime cose che tutti quanti voi potreste raccontare; addirittura c’è qualcuno che da più di 15 anni è impegnato in questo percorso. Mi piace raccogliere questo dato da parte vostra tra, per riconoscerci innanzitutto che siamo persone diverse, con esperienze diverse, con più o meno esperienza anche a livello quantitativo del tempo; eppure siamo tutti impegnati, ciascuno con il proprio talento, la propria disponibilità a fare un passo per renderci più prossimi all’altro che si trova in una situazione di difficoltà. Sono arrivate diverse risposte che ci dicono di come è composto questo gruppo; e potremmo anche immaginare quanti volti avete incontrato in questi anni; potremo allora domandarci “com’è stato il mio sguardo in questo tempo di incontro con gli altri?” e “lo sguardo di chi invece ho accolto come mi ha guardato, mi ha osservato?” e questa domanda la lancio anche alle persone che si stanno avvicinando al mondo della Caritas: “come mi sento mentre guardo l’altro e come mi sento mentre l’altro mi guarda?”.

Proviamo a fare un passo in più: stiamo parlando di cura, di sguardi, di relazioni, di ostacoli, di possibilità. Questa cura, che sembra quasi fare rima con la parola carità, e che vi contraddistingue come gruppo, e mi piace includermi, ci contraddistingue anche della riflessione di questa di questa sera, soprattutto pensando gli sguardi. Non voglio fare citazioni ossequiose ma mi balzano subito nella memoria le letture dei brani del Vangelo, in cui vediamo Gesù impegnato a guardare, ad osservare qualcun altro: ha quello sguardo che crea una differenza nell’altra persona e dà proprio la possibilità di una ripartenza, di una rinascita. Anche su questa sollecitazione potremmo chiederci: ma com’è che possiamo imparare a guardare gli altri nel senso proprio dallo sguardo pieno pensando alla scuola di Gesù come Maestro?

Per fare un passo in più vi propongo di guardare e di pensare anche ai diversi punti di vista. Quando noi guardiamo osserviamo qualche cosa, osserviamo qualcuno, anche l’altro ci osserva: ed è un po’ in quel territorio di mezzo che poi ci incontriamo, che ci mettiamo d’accordo. Vedete questi due signori con un numero davanti: allora se mi metto nel nella posizione del signore con la maglia nera vedrò un 6, se mi metto nella posizione del signore con la maglia rossa vedrò un 9. E se entrambi fossero fermi nella loro posizione potrebbero proprio dire “io vedo un 6” e “io vedo un 9”. E invece se faranno la fatica e la prova di cambiare la loro posizione, o se qualcuno inviterà e accoglierà qualcuno l’altro nel proprio spazio, potranno vedere effettivamente quel numero lì è sia un 6 e sia un 9, che non esiste un’oggettività, una posizione maggioritaria rispetto all’altro, ma che questo numero che si trova lì nel mezzo ha proprio bisogno di essere approcciato con un approccio di complessità, di guardare alle cose non stando fermi lì, fissi nella propria posizione, ma facendo la fatica di andare un po’ a guardare, a girare attorno, come si fa con le sculture, per vederle nella tridimensionalità, per vedere le sfumature, per vedere proprio quei particolari di quella realtà.

Facciamo ancora un passo in più e vi chiedo per un attimo di provare a fare un piccolo esercizio, un allenamento per il nostro sguardo: il nostro sguardo verso l’altro anche verso noi stessi. Come possiamo farlo? Beh, qui abbiamo tanti stimoli: ci sono questi due occhi innanzitutto, e forse adesso vedrete me, visto che sto parlando, ma se visualizzate tutte le persone, come avete ormai imparato a fare, potreste vedere delle altre persone qui connesse; oppure potreste farvi un selfie, o guardare le persone che sono nella stanza con voi, a destra e sinistra; oppure ancora, per chi è collegato con il telefono, vi do questa possibilità: di scattare una fotografia del vostro volto. È molto facile: basta cliccare sulla fotografia che trovate lì nel nella pagina dello schermo del vostro cellulare, fare una foto e poi inviarla. Allora innanzitutto grazie alle persone che hanno mandato la loro fotografia e vi invito a prendervi qualche secondo per osservare, proviamo a soffermarci sui volti che ci sono arrivati. Li scorro un attimo qui nel mio schermo, e mentre scorro vi chiedo di esercitare il vostro sguardo, di chiederci che effetto mi fa osservare quella persona lì? Che cosa mi ispira, che cosa mi dice, che cosa mi attira di quello sguardo? Ci prendiamo qualche secondo per esercitare il nostro sguardo nell’osservare l’altro, sapendo che anche questa persona si sentirà osservata in questo momento. E per fare un passo in più adesso mentre continua a scorrere le fotografie mi chiedo di osservare questi volti e di provare ad individuare qualche cosa che sentite che un po’ vi assomiglia. Ad esempio, c’è questo signore qui con questa maglia blu che ha gli occhiali come me, e anche quest’altro come me ha gli occhiali, e poi c’è forse questo con il naso che è simile al mio; forse qualcuno si può riconoscere in un sorriso con le fossette che troviamo qui, in un’espressione, ecco beh vedo questo signore qui che ha gli occhi che mi assomigliano. Per fare questo esercizio e provare a cercare no qualche cosa che si collega al nostro volto, al come siamo, possiamo anche chiederci un po’ di più: ma in che cosa l’altro può assomigliare a me, non solo fisicamente, ma anche per com’è, per come vive, per alcune difficoltà che magari sta attraversando e che io sto attraversando, o che forse ho già attraversato dalla mia vita e fortunatamente un po’ ne son venuto fuori. Vedo una libreria con dei pupazzi e mi chiedo in che modo nel momento in cui sono in una relazione con qualcuno riesco ad entrare in una dimensione di incontro giocoso, dell’incontro giocoso che fanno i bambini e che diventa veramente generativo dello stare bene, della crescita, della voglia di andare avanti, della condivisione di un sorriso.

Abbiamo provato qui a fare un brevissimo esercizio di sguardi che ci hanno un po’ così permesso di osservare e di essere osservati, ma anche di osservare e di osservarci, di auto-osservarci. Allora per forse nell’idea della possibilità del farsi prossimo all’altro attraverso il nostro servizio come operatori Caritas potremmo sempre tenerci in tasca questo suggerimento di guardare l’altro cercando di vedere non solo quello che ci contraddistingue: l’altro è una persona povera e io non sono una persona povera, l’altro è una persona che in questo momento ha bisogno di me, io sono quello che offre e l’altro è uno che ha una vita disastrata mentre io ho una vita sufficientemente serena e stabile; ma prenderci quell’impegno di andare a cercare l’altro, pur diverso da me, con una condizione di vita magari diversa dalla mia, in che cosa mi assomiglia? Dove trovo qualcosa che veramente può entrare in sintonia e farci sentire uguali, vicini, proprio per permettere di avvicinarci ancora di più e di sentire che col mio farsi prossimo è un mettersi alla pari, allo stesso livello, come qualcuno che vuole mettere qualche cosa in circolo e stare anche all’interno di una relazione di reciprocità, in cui tutti danno qualcosa e ricevono qualcosa in questo percorso.

Per procedere sempre con gli sguardi ho pensato anche di portarvi un attimo al cinema, così io mi fermo un attimo dal parlare, e osserviamo insieme una breve storia tratta da un cortometraggio di Gabriele Salvatores che si intitola “Stella”, eventualmente la potete trovare tranquillamente anche su YouTube.

Padrone del negozio:Signorina!
Bambina:Grazie, che bello!
Padrone del negozio:Ahò!
(Incidente)
Dottore:Ha degli occhi bellissimi. Sembra molto intelligente.
Assistente sociale:Come sta?
Dottore: Ha riportato delle lesioni gravi all’arto inferiore. Temiamo possa perdere la gamba.
Assistente sociale: Le avete già detto della madre?
Dottore: Aspettiamo la psicologa. Lei la conosceva?
Assistente sociale: Tossicodipendente, senza un lavoro fisso. E adorava sua figlia.
Dottore: E con lei cosa pensate di fare?
Assistente sociale: Il padre non l’ha mai conosciuto, non ci sono altri parenti. Stella! Stella? Stella!
Marco:Mi fermo un attimo per lanciare qualche suggestione. Abbiamo incontrato una situazione di un incidente, una storia tragica che ci ha fatto incontrare due persone, una mamma e una figlia. Pensando alla mamma, abbiamo sentito la storia di una persona con delle difficoltà, con un vissuto di tossicodipendenza, lavoro precario, ecc. Ci dice la storia che ama molto sua figlia. Vediamo che è una mamma che per rispondere alla sua situazione di povertà si trova anche a rubare al supermercato, e in quel momento, visto che sa della passione di sua figlia, quando vede il Dolce Forno non riesce a fermarsi alla tentazione di poterglielo regalare, e fa questo gesto che vuole essere un gesto affettuoso nei confronti della figlia, pur essendo comunque un gesto criminale, e che però poi la porterà a questo esito di vita, purtroppo. Vediamo allora che cosa succede dopo per questa bambina, e potremmo anche intanto chiederci: ma io come operatore Caritas se incontrassi questa situazione, sia prima quando mamma e bambina vivevano ancora insieme, ma anche poi come persona della comunità che si trova ad incontrare questa bambina ed essere di supporto per lei, come guarderei a questa situazione? In che modo userei il mio sguardo per poter entrare in relazione con la bambina, con sua mamma o con la storia che sua mamma ha lasciato? Vediamo che cosa ci racconta il la narrazione 27 anni dopo.
27 anni dopo
Candidata: E vabbè, non è che ho fatto la scuola alberghiera… Non ho fatto nessuna scuola. Più che altro mi vengono bene i dolci.
Chef: Lo so. L’altra sera per caso mio marito ha cenato nella trattoria dove lavori tu. Dice che una torta al cioccolato buona come la tua non l’aveva mai assaggiata. Mi serve un capo pasticcere. Ti va di lavorare qui?
Candidata: Sta scherzando?! Lei è un grande chef. Questo è uno dei migliori ristoranti…
Chef: Conosco il mio ristorante! Parlami di te, piuttosto: non so, cosa hai fatto… da dove vieni…
Candidata: Non ho fatto granché, finora, a parte un mucchio di cazzate. Me la sono sempre dovuta cavare da sola, io. Diciamo pure che ci sono cresciuta, da sola. Non c’era nessuno a dirmi come si fa. Poi lì… lì ho incontrato… ho incontrato le persone sbagliate! Sì, si dice così, no? Le persone sbagliate… Sbagliata?! Forse sono io quella sbagliata, sono io quella sbagliata, non so… Io non lo sapevo, non immaginavo, lui era un pregiudicato, io mi trovavo lì in quel momento, non potevo fare altro, non potevo sapere. È stata una leggerezza!
Chef: … Che ti è costata tre mesi di carcere per favoreggiamento. È tutto a posto. Volevo solo essere sicura che tu non mi dicessi bugie.
Candidata: Vuol dire che mi assume lo stesso?
Chef: Una vita difficile non è una colpa. In effetti non dovrebbe essere nemmeno un alibi. E poi a me piacciono le persone che lottano.

Ci fermiamo qui un attimo con questa storia di Stella. L’ultima frase è stata: «una vita difficile non è una colpa, non dovrebbe essere nemmeno un alibi» e questa chef che incontra questa ragazza la ascolta e nonostante tutte le sue difficoltà le dà questa possibilità. Allora potremo concentrarci proprio sugli sguardi, come si sono guardate queste due persone, e quale modo diverso che la chef ha usato per guardare questa ragazza ha permesso a questa ragazza anche di guardare sé stessa in modo diverso. Allora facciamo un passo un passo avanti e vi chiedo se potete scrivere una parola, due parole per indicare, guardando questo pezzo di cortometraggio, che cosa vi è venuto in mente del nostro essere operatori Caritas? La prima cosa che vi passa in mente. L’empatia, quindi l’importanza della relazione empatica di ascolto con l’altro, questa è la prima la prima parola; la tenerezza, la comprensione, la profondità, la voglia di fare, la voglia di rimettersi a un gioco e come anche noi possiamo diventare un motore, una miccia perché l’altro possa mettersi in gioco. La dimensione del tempo, darsi il tempo per l’incontro, ma darsi il tempo anche per un cambiamento; il guardare oltre l’apparenza, non fermarsi alla prima cosa che vediamo, alla superficie; vedo la sofferenza con un cuore, per stare con la sofferenza ci vuole il cuore, e prendersi proprio questo spazio, questo tempo privilegiato, di entrare in contatto, farsi vicini alla sofferenza di qualcuno sapendo che la sofferenza dell’altro non possiamo toglierla, ma sapendo che soffrire da soli e soffrire con qualcuno fa una grande differenza; e poi il sorriso, e la gratuità, il potersi giocare una relazione così in modo autentico e gratuito senza aspettarsi niente, dare sempre nuova possibilità, che nel caso di questo chef è comunque un grande un grande rischio. È una chef molto famosa, con un ristorante molto importante, per cui vediamo che anche l’azione questa chef fa è un’azione che chiede anche una risposta in questa ragazza, e che ci suggerisce che magari è una sfumatura diversa rispetto a quello che potrebbe essere un approccio di tipo incondizionato nel confronto degli altri.

Allora mi fermerei qui e vi ringrazio delle vostre risposte che trovate qui nello schermo e che potete anche vedere nel vostro cellulare, e vorrei darvi la possibilità di vedere l’ultimo pezzettino del video: ci siamo fermati nel momento in cui la chef ha dato a questa ragazza la possibilità di questo lavoro, e ciascuno si è immaginato dentro di sé che cosa è successo dal momento dell’incidente a quel momento lì, e utilizzato le informazioni che il cortometraggio ci ha offerto proprio per immaginare quello che è successo. Sappiamo che la nostra attenzione, il nostro modo di pensare, nel momento in cui manca qualche cosa cerca di trovare dei collegamenti per unire pannelli di senso nella storia; allora abbiamo visto questa bambina, figlia di una mamma tossicodipendente, che le vuole bene, che però è in difficoltà economica, e poi l’incidente: cosa ne sarà di questa bambina? E poi veniamo proiettati molto tempo dopo, qui vediamo due donne, una un po’ più grande e una più piccola, una è una chef rinomata, che offre un posto di lavoro ad un’altra donna, una ragazza più giovane, che ha un trascorso di difficoltà, e che ci fa ricordare qualche cosa che avevamo visto prima. Andiamo a vedere che cosa succede.

[La chef si alza, cammina appoggiandosi ad un bastone]

Candidata: Posso chiedere una cosa? Quello… cos’è?

Chef: Quello… è stato l’ultimo regalo che mi ha fatto mia madre. Da quel giorno forse sto solo cercando di meritarmelo.

Allora avete visto forse un effetto a sorpresa qui alla fine, un po’ uno schiaffo che ci viene dato dal nostro modo di guardare. Immagino che la maggior parte di noi abbia pensato che Stella fosse la ragazza in difficoltà, con il giubbotto di jeans e parlasse con la chef, e invece abbiamo scoperto che Stella realtà è la chef, e lo capiamo perché la sua gamba è stata offesa durante l’incidente. Vediamo che questo non le ha impedito poi di crescere e di svilupparsi, di formare una famiglia, di sposarsi trovare un compagno, e anche di continuare a nutrire la sua passione, di diventare una cuoca molto famosa; e vediamo come questa sua storia poi le ha permesso anche di avere un’attenzione professionale e umana nei confronti di qualcuno e di volerci investire, scommettere anche, nell’aiuto di qualcun altro. E così il Dolce forno alla fine ci ricorda proprio di tutta questa parabola della vita di questa ragazza, ed è un ricordo molto forte che lei ha di sua madre e di quel giorno. Vi chiedo di concludere questa parte riattivando il vostro cellulare e di dirci che cosa questa storia ci può dire come operatori Caritas, sempre con una o due parole: qual è il suggerimento, un’indicazione, un’attenzione che questa storia ci può lasciare come operatori? Ecco: ascoltare senza giudicare, l’altro è protagonista della sua storia, l’empatia che aiuta nella carità, evitare automatismi delle relazioni d’aiuto: se sei così allora… o se ti è capitato questo allora… perché possiamo essere proprio noi quell’ingranaggio che fa la differenza, perché innesca qualche cosa di nuovo; ciascuno ha diritto ad una possibilità, non ritenere mai di avere capito tutto delle persone e dei fatti della vita, non fermarsi alle apparenze, e aiuto per tutti senza discriminare, perché non sappiamo che cosa c’è dietro l’altro, e soprattutto non sappiamo che cosa la miccia che noi attiviamo in quel momento può portare agli altri.

Un’ultima sfumatura che mi piace condividere con voi è il fare riferimento a questa storia pensando a quello che è successo a Stella dal momento dell’incidente fino a quando la vediamo grande chef nell’accoglienza di questa ragazza: sarà sicuramente una bambina che ha vissuto in un contesto che l’ha accolta e aiutata a crescere, che è stato fatto di tante persone; mi piace pensare che questa bambina è cresciuta grazie al contributo anche della comunità dove ha abitato; che cosa ha fatto sì che questa sua esperienza di vita iniziale difficile non si tramutasse in una impossibilità, in un ostacolo per lei, ma invece diventasse una possibilità per lei? Siamo partiti dalla cura dello sguardo, cura della relazione, tra e ostacoli e possibilità: allora forse questa storia ci ricorda anche di come la nostra azione importantissima nei confronti di qualcuno che è in difficoltà, anche in un momento di incontro individuale, è importante considerarla all’interno di una dimensione più ampia, della comunità, nel nostro caso della comunità cristiana, sapendo che un piccolo anello può unirsi a degli anelli di qualcun altro e in questo modo creare una struttura di forza, di rete, che possa sia sostenere l’altro, ma soprattutto mi piace usare la rete, come quella del trampolino, che possa permettere all’altro in una situazione di difficoltà, di rimbalzare dalla sua situazione per trovare l’energia per fare un prossimo passo verso quella che è la sua dimensione di realizzazione e di compimento.

Allora ti saluto così tenendoci nello sfondo il racconto di questa storia e come abbiamo esercitato il nostro sguardo, e come anche questa storia ci ha chiesto di riguardare quello che avevamo visto prima alla luce di nuove informazioni, di riguardare da un altro punto di vista e di trovare questo spazio per far emergere quell’inedito di questa storia che prima non avevamo colto. Per concludere mi piace chiedervi di salutare questa comunità che è stata qui con noi oggi connessa con una parola che rappresenta qualche cosa che vi portate a casa da questo incontro: una parola che diventa segno per me, perché è importante per me, però nella nello scriverla diventa anche un dono per l’altro, perché è come se mettessi un buon boccone nella tavola comune, un pezzo di pane da condividere in questa tavola formativa riflessiva che oggi ci stiamo insieme regalando. Emerge la condivisione, lo sguardo oltre l’apparenza, la reciprocità; pensiamo a queste parole come se fosse una storia di nuovi amici che condividono in modo reciproco e che riescono a fare questo grazie al guardare oltre l’apparenza, che permette di rivolgere lo sguardo al profondo di ciascuno; un’attenzione giusta, che crea fiducia, che fa emergere delle risorse e ci mette dentro uno spirito di famiglia; ma soprattutto è quello sguardo che permette proprio di essere fecondi, essere secondi noi stessi ed essere fecondi anche per gli altri, per generare in modo gratuito qualche cosa di nuovo che ancora non c’era capitato di incontrare, ma soprattutto per generare quell’ingranaggio che può veramente fare la differenza per noi e per l’altro ed attivare un nuovo percorso, un percorso che alcuni chiamano anche di resilienza, se vogliamo utilizzare un termine che ci ricorda di portare il nostro sguardo oltre l’apparenza per andare a cogliere quella risorsa, quel cuore che permette a tutti quanti noi di crescere come singole persone e anche di crescere all’interno della comunità. E con questo vi ringrazio e mi fermo.

Vito Mariella:Grazie Marco, grazie anche per la modalità innovativa rispetto a un qualcosa che a distanza in qualche modo ci proiettava, in base sempre gli stessi pregiudizi che ogni tanto ci portiamo appresso, in un ascolto passivo, mentre invece hai reso questo momento, nonostante la distanza, anche molto dinamico. Passo la parola a Chiara.

Chiara: Marco volevo ringraziarti perché con delicatezza ci hai fatto fare una bella capovolta: ci hai aiutato in realtà soprattutto a guardare noi stessi, a guardare come noi guardiamo, e in particolare volevo riprendere uno dei commenti che i partecipanti hanno segnalato. Era quello che diceva che al cospetto dell’altro noi siamo soltanto nella modalità dell’aiutante, che in fondo ci dà un po’ potere, ci fa sentire buoni; ma siamo anche nella modalità del ricevente, e quindi è uno scambio davvero reale. Non siamo soltanto i datori, ma anche nella posizione di poter noi stessi essere trasformati. Il povero è sicuramente chi è in una situazione di indigenza, ma in realtà anche noi continuamente in varie forme; e tu ci hai aiutato delicatamente a posizionarci dentro questo sguardo multiplo. E quindi davvero grazie, anche perché, come diceva Vito, ci hai davvero stupito, scosso in questo coinvolgimento, e anche questo movimento che ci hai chiesto è significativo: che cosa noi portiamo rispetto a quello che accade nel nostro mondo interno, oltre il pacco di pasta, oltre l’offerta di un aiuto visibile? Portiamo l’invisibile, che però è sempre tanto quanto il materiale. Quindi davvero grazie.

Marco:Grazie Chiara per queste sottolineature che mi permettono anche di raggiungere un pezzettino che prima non avevo evidenziato. Abbiamo visto come anche in questa situazione non abbiamo giocato tutti alla pari, perché solo una parte di questo gruppo ha interagito con il cellulare nelle attività, mentre altre persone sono rimaste silenziose ad osservare. Ci sono tanti motivi per questo, le abilità tecniche ecc., però mi piace guardare a questo aspetto anche con una sfumatura di tipo inclusivo, sapendo che qui non abbiamo voluto fare un gioco di potere nel dare la parola a qualcuno e togliere la parola all’altro, ma le condizioni di questo incontro, di questo tempo, delle possibilità che ciascuno di noi ha, hanno permesso ad alcuni di partecipare di più ed alcuni di partecipare di meno. Allora mi piace anche guardare agli interventi che alcuni di voi hanno mandato attraverso l’utilizzo del cellulare dentro questo sito, non solo unicamente come degli interventi personali, ma come delle parole che si prendono anche la responsabilità di essere proferite per chi la voce non ce l’ha. Ora pensiamo a quanto le persone in situazioni di povertà, di indigenza, di difficoltà, sono in qualche modo silenziate dal contesto: loro non ce la fanno, il contesto le rende mute, si vergognano ecc., e siamo noi che abbiamo la responsabilità di mettere queste parole, e sappiamo che poi le parole creano il mondo, e quindi ancora di più è importante che esercitiamo anche il nostro modo di raccontare queste storie che incontriamo, nel dire all’altro, alla comunità che cosa facciamo. È diverso dire “ieri sono andato a portare il pacco spesa una famiglia” e “ieri sono a portare il pacco spesa a dei poveri” e “ieri insieme agli altri operatori Caritas abbiamo incontrato una famiglia in difficoltà a cui abbiamo portato qualche cosa da mangiare e ci siamo poi fermati chiacchierare e a farci raccontare come stanno, abbiamo raccontato anche noi come stiamo”: questo apre un mondo completamente diverso. Ricordiamoci anche che spesso le parole che noi diciamo non solo parole che rappresentano solo la nostra situazione ma possono parlare anche per chi invece più la voce non ce l’ha e grazie alle nostre parole magari nei prossimi incontri potremmo anche aiutare qualcun altro a rendere la sua voce più ascoltata.

Vito:Grazie Marco, grazie per il tempo che ci hai dedicato quest’oggi, e riprendendo solo per un secondo la questione delle parole, abbiamo la necessità di ridare senso e di restituire senso e significato alle parole, perché molto spesso l’anticamera di alcuni nostri gesti provengono da aver svuotato di senso alcune parole, che diamo forse per scontate; ridare senso alle parole poi significa ridare il senso a quella operatività, a quello che siamo. Ripasso la parola a Don Vito per un saluto finale.

Don Vito:Un grande grazie a Marco che ci ha davvero coinvolti in questa attività ma soprattutto nel suo dire, nel suo invito a posizionarci anche con uno sguardo nuovo rispetto alle cose, e forse a togliere un po’ di polvere dal nostro modo di guardare quotidiano. Grazie Marco. Salutandovi assieme a Vito, a Michela, a tutta l’equipe e i collaboratori, mi preme davvero sottolineare questo aspetto a cui non dobbiamo mai rinunciare: rendiamoci conto che attraverso il nostro sguardo, attraverso il nostro sentire, attraverso la nostra presenza con le persone che incontriamo, soprattutto quelle più fragili, noi abbiamo un compito e una responsabilità anche verso la Comunità, verso la comunità cristiana, ma anche verso la comunità civile. Ciò che raggiungiamo con il nostro sguardo sì, ci plasma come persone, però non deve rimanere solo dentro di noi, non deve rimanere nei nostri circuiti Caritas, deve espandersi un po’ di più all’interno della comunità ripeto e della comunità cristiana e della comunità civile: solo allora quello sguardo mette insieme, un po’ come piace dire a Chiara, la mistica e la politica. Fin quando non raggiungiamo questa misura il nostro compito caritativo rimane un po’ spento, non arriva lì dove dovrebbe arrivare, e questo sarebbe un torto verso i nostri fratelli e sorelle che tentiamo insieme di servire. Quindi davvero un grande grazie a ciascuno di voi anche per la partecipazione, ci scusiamo anche per alcuni problemi tecnici che ci sono stati, fanno parte del momento, del cammino che viviamo. Vi raccomandiamo anche di partecipare agli altri due incontri. Un saluto caro a tutti quanti voi e attraverso voi anche ai miei confratelli sacerdoti, ai parroci, e davvero sono contento per l’impegno che voi nei centri di ascolto ci mettete a servizio dei più poveri. Grazie a tutti e buona serata.

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