Il numero delle amministrazioni locali che hanno deliberato la gratuità dei mezzi pubblici regionali e metropolitani per i cittadini ucraini, aumenta di giorno in giorno. Una lodevole iniziativa (assieme a tante altre) che rischia però di ampliare indirettamente la forbice delle disuguaglianze legittimando il riconoscimento di solo alcuni soggetti fragili, meritevoli dell’esclusività di alcuni diritti. Un piccolo esempio di come la solidarietà verso alcuni possa involontariamente (si spera!) trasformarsi in una forma di discriminazione per altri. L’emergenza ucraina ci restituisce chiaramente la nostra fragilità. Abbiamo costantemente bisogno di vedere e toccare con mano le ferite dell’umanità. È comprensibile ed umano riconoscersi nelle storie e nei volti dei tanti fratelli e sorelle che costantemente vivono (o muioino) sotto le bombe, ai confini dell’Europa. L’orrore della guerra ci colpisce e non facciamo fatica a cum – patire il popolo ucraino. Migliaia di italiani, in queste settimane, hanno aperto le porte delle proprie case ai tanti profughi provenienti. Donne sole, mamme con bambini, anziani, stanno vivendo una dimensione domestica dell’accoglienza. Una straordinaria prova di solidarietà che ci deve far riflettere e guardare con speranza verso il futuro. In questi ultimi anni abbiamo fatto fatica a riconoscere sempre il volto dell’altro. Le nostre coscienze erano ( e forse lo sono ancora) anestetizzate da una narrazione disumanizzata dei flussi migratori. Numeri e non persone, da accogliere o da respingere. Un problema di ordine pubblico o di quadratura di bilancio per tanti amministratori locali. Insomma, un tema fagocitato dalle diverse ideologie e disincarnato dalla realtà. Sempre secondo Lèvinas, l’altro è il limite che ci interroga continuamente. Ma nel recente passato non sempre abbiamo avuto la capacità di porci le giuste domande, abbiamo delegato ad altri la costruzione di un pensiero critico e ci siamo accontentati della banalizzazione della complessità dello scenario geo politico internazionale e dei relativi flussi migratori. Nel mondo vi sono 82 milioni di persone in fuga da guerre, carestie, disastri climatici, discriminazioni. Solo in Yemen e Siria vi sono 10 milioni di persone in fuga. La Libia, per tanti migranti, si è trasformata in un luogo di prigionia. Uno stato lager dove tante donne vengono seviziate, violentate, acquistate e vendute dai trafficanti di esseri umani. Le stesse che ritroviamo sulle nostre strade e releghiamo ad un mero problema di decoro urbano. L’unica risposta possibile all’epifania del volto è l’accoglienza. Senza distinzioni di razza, sesso e religione. Non vi sono al mondo conflitti più importanti o meno importanti. Le bombe quando toccano terra ed esplodono provocano la stessa devastazione e morte ad ogni latitudine. Fare accoglienza è faticoso e mai banale. Ci mette costantemente in discussione e davanti alla necessità di trasformare l’emotività del momento in solidarietà organizzata. Questo significa che nei percorsi d’accoglienza nessuno può e deve sentirsi autosufficiente. Famiglie, volontari, professionisti ed operatori sociali devono lavorare assieme per costruire modelli di accoglienza virtuosi che mettano sempre al centro la persona accolta e non chi accoglie.
La risposta umanitaria alla guerra in Ucraina ci impone di riposizionare i nostri sguardi sui crocifissi di ogni giorno, senza ipocrisia. Profughi, vittime di tratta, disoccupati, senza dimora, vittime delle dipendenze. “Stare con gli ultimi” non è una moda del momento, ma una scelta di vita. Soprattutto per noi cristiani.
Vito Mariella
vice – direttore Caritas diocesana Bari – Bitonto