Sono scesi in piazza per chiedere migliori condizioni igienico-sanitarie e maggiore assistenza, in attesa, a volte lunga anni, di ottenere il permesso di soggiorno. Sono i migranti del Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo) di Bari Palese che nei giorni scorsi hanno manifestato per le vie di Bari per rivendicare i loro diritti a cominciare da un’accoglienza dignitosa, a seguito del decesso di uno loro: un giovane guineano di 33 anni, a cui era stata respinta la richiesta di asilo, morto per non essere stato soccorso in tempo dopo aver ingerito delle pile
“Un drammatico incidente che sottolinea ancora di più la necessità di rafforzare la tutela dei diritti e delle condizioni psicologiche di chi è costretto a vivere in situazioni di grande fragilità”. Il segretario generale della Fai-Cisl Bari, Vincenzo Cinquepalmi, ha commentato così la morte del 33enne originario della Guinea, ospite del Cara di Bari (Centro di accoglienza per richiedenti asilo) morto il 5 novembre scorso in ospedale dopo aver ingerito 11 pile. Probabilmente un gesto di autolesionismo. Secondo quanto riportato da alcuni testimoni, l’uomo è stato portato in ospedale “dopo tre giorni che lamentava dolori alla pancia, ma gli veniva dato solo del paracetamolo”. La notizia ha fatto scoppiare una rivolta tra i migranti del centro. Sul posto sono intervenute le forze dell’ordine. Proprio Cinquepalmi, nell’agosto scorso, nell’ambito della campagna ‘Tutele in Movimento’, aveva incontrato al Cara giovani e famiglie per raccogliere le loro istanze.
“I diritti umani non posso essere violati. È necessario dare un’identità a ciascuna di queste persone, proporre loro, soprattutto ai ragazzi, anche grazie al supporto delle aziende, delle attività formative” ha fatto, ancora presente, Annarita Gianniello, segretaria confederale regionale della Uil Puglia con delega all’immigrazione.
E in queste ore anche la Caritas diocesana insieme all’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi di Bari Bitonto si stanno confrontando per cercare di comprendere meglio la situazione.“Un dato è certo – commenta Vito Mariella, vicedirettore della Caritas diocesana – la presenza all’interno del Cara di Bari Palese, come in tanti centri presenti in Italia, di un numero così elevato di persone mette in evidenza la difficoltà di un modello che sicuramente fa molta fatica a restituire delle dimensioni umane di accoglienza.
Sono circa 1000 infatti gli “ospiti” della struttura (tra i quali anche i 12 naufraghi portati in Albania e poi tornati in Italia il mese scorso) contro i 744 posti disponibili. “L’accoglienza diffusa sarebbe una soluzione da poter mettere in campo – prosegue Mariella –, però parliamo di un sistema che, dettato da linee nazionali e internazionali, non riguarda soltanto la città di Bari. Inoltre, noi di Caritas, temiamo che la problematica, nelle grandi metropoli, vada a configurarsi come una questione di mero decoro urbano. Crediamo invece che sia necessario mettere al centro, prima di tutto, il decoro umano. Se le persone venissero accolte, con dignità e nel rispetto dei diritti, di conseguenza anche i territori stessi risulterebbero più sicuri”.
Ma non solo. Parlando di migranti, immediato è il rimando ad altri fenomeni come lo sfruttamento in tutte le sue declinazioni. “Quando si configurano sacche di illegalità e quindi di una non identità certa attraverso il permesso di soggiorno, la prima forma di welfare che viene messa in campo è quella della criminalità organizzata.E questo vale per lo sfruttamento lavorativo, lo sfruttamento sessuale, l’accattonaggio”. Purtroppo la tratta e lo sfruttamento degli esseri umani è ancora presente sui nostri territori.
E per fronte a questa emergenza, la Regione Puglia è da tempo attiva con il progetto “LaPuglia non tratta”, una iniziativa che, attraverso il contributo di diverse realtà radicate sul territorio, si occupa di contrastare questi fenomeni. A cominciare dal lavoro nero nei campi, “che – sottolinea ancora Vito Mariella – diventa cruciale soprattutto in alcuni periodi dell’anno. Nel nostro territorio, all’interno del Sud Est barese, non abbiamo presenze stanziali come in Capitanata, ma c’è un fenomeno sommerso che mette comunque in evidenza la necessità di farsi presente attraverso il volontariato, il terzo settore, e le istituzioni pubbliche. Non è possibile contrastare questi fenomeni così complessi in maniera autonoma, ma è necessario mettere assieme le energie. Siamo ormai alle porte del grande Giubileo 2025, tempo prezioso nel quale Papa Francesco ci chiede di farci pellegrini di speranza, soprattutto nei confronti di chi è nel bisogno, sembra si stia andando in una direzione completamente opposta.
Facciamo fatica a mettere al centro l’incontro, la costruzione di una relazione con chi viene da territori diversi e da scelte di vita complicate. Dimentichiamo molto spesso quello che c’è prima dell’arrivo in Italia. Ci sono viaggi della speranza dove c’è chi muore in mare, nel deserto, dove ci sono persone che non rivedranno più i propri cari”.
Necessario quindi invertire la rotta e il vicedirettore della Caritas diocesana non ha dubbi. “Dobbiamo ritrovare la capacità di rimettere al centro delle comunità la relazione con le persone che incontriamo, ricordandoci che non siamo di fronte a soggetti passivi, ma a protagonisti che meritano un confronto alla pari”.
Fonte: agensir